Reddito di cittadinanza e obbligo al lavoro

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Le offerte di lavoro presentate dai Centri per l’Impiego (Cpi) ai beneficiari del reddito di cittadinanza non potranno più essere rifiutate, pena la perdita della misura stessa. È Conte in persona a essere intervenuto sulla materia, lasciando capire che su questo terreno è lui stesso ad assumersi la responsabilità della scelta.

La riforma del reddito di cittadinanza sarebbe giustificata dai dati resi noti dall’Anpal, che certificano che su circa 1 milione e 223 mila percettori potenzialmente occupabili soltanto 318mila avrebbero stipulato il Patto di servizio (dati luglio 2020), mentre appena 220mila sarebbero state le proposte di lavoro e di formazione.

Quindi, ne deduce il premier, il reddito di cittadinanza non starebbe funzionando come strumento di politica attiva ma solo come sussidio. Per incentivare il suo utilizzo come strumento di politica del lavoro Conte perciò propone che il reddito possa essere erogato soltanto a chi si dispone ad accogliere qualsiasi proposta di lavoro gli venga sottoposta dai Cpi.

I dati inoltre metterebbero impietosamente in luce l’inadeguatezza di questi ultimi, strutture pubbliche rivitalizzate con l’introduzione del reddito di cittadinanza, che rischiano di essere per lo meno affiancate dalle agenzie interinali. Alessandro Ramazza, presidente dell’Assolavoro, l’associazione delle agenzie private del settore, ha subito ribadito sul Giorno che le agenzie sono in prima linea per garantire i servizi di incrocio tra domanda e offerta, candidando le imprese associate a svolgere le attività ora in carico ai Cpi.

Che i percettori del reddito di cittadinanza non abbiano trovato lavoro, però, è difficilmente attribuibile al reddito stesso. In epoca di Covid-19 questa considerazione sembrerebbe quasi banale e scontata, eppure è questo che Conte sta sostenendo.

Il reddito di cittadinanza è diventato il metro di misura per accettare o rifiutare un’offerta di lavoro, e chi la rifiuta lo fa perché il livello del reddito è tale da consentirgli di vivere in condizioni migliori che se accettasse il reddito da lavoro.

Quindi il lavoro, dice oggi Conte, va accettato a qualsiasi condizione, o meglio alle condizioni che stabiliscono le imprese, con i salari che loro impongono (altro che salario minimo a 9 euro l’ora, vero ministra Catalfo?) ed a qualsiasi distanza da dove vivi. E non importa se per lavorare dovrai emigrare, basterà che il salario proposto sia appena più alto del reddito di cittadinanza, cioè poco più di 780 euro.

Il reddito di cittadinanza, in realtà, non è nato come misura di politica attiva ma come strumento di lotta alla povertà e, pur con tutte le odiose condizionalità che ne hanno limitato fortemente l’applicazione, ha svolto la sua funzione molto meglio di quanto non abbiano fatto le misure intentate dai governi precedenti.

Esso sta svolgendo anche la funzione di misura di protezione nei confronti delle richieste selvagge delle aziende, una sorta di ombrello a difesa di chi altrimenti resta completamente ostaggio del mercato. Ed è questo che si vuole colpire, per abbassare ancora di più i minimi retributivi reali e schiacciare la parte povera del paese.

È un primo assaggio di come Conte intende utilizzare il Recovery Fund.

 

Unione Sindacale di Base