Riders paradigma delle nuove forme di sfruttamento. Ma a Palermo una sentenza li riconosce come lavoratori subordinati

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La possibilità data ai lavoratori di prenotare la loro prestazione costituisce il pretesto agitato dalle piattaforme per considerare i riders lavoratori autonomi, assunti con co.co.co o addirittura in partita IVA. Ma il 20 novembre con la sentenza 7283/2000 il Tribunale di Palermo ha affermato chiaramente la natura subordinata del rapporto di lavoro di un rider, reintegrandolo in servizio dopo che era stato disconnesso dalla piattaforma. “L’art. 2094 c.c. [che definisce il lavoratore subordinato] venne scritto per la prima Rivoluzione Industriale – recita la sentenza - in cui il modello di lavoro subordinato era quello dell’operaio della fabbrica e del fordismo; esso deve necessariamente essere interpretato in modo evolutivo per applicarlo o escluderne l’applicazione al lavoro su piattaforma digitale, che, in sé, ben può essere subordinato”.

Cioè, dice il Tribunale, l’articolo 2094 va ripensato in relazione ai cambiamenti intervenuti nel corso dei decenni ma non per questo nel frattempo si può pensare che scompaia la sostanza del rapporto di lavoro subordinato. E infatti finalmente afferma ciò che è sempre sembrato ovvio: “da un lato, che la prestazione dei rider (…) risulta completamente organizzata dall’esterno (eterorganizzata) e d’altra parte  che la libertà del rider (…) di scegliere se e quando lavorare, su cui si fonda la natura autonoma della prestazione, non è reale ma solo apparente e fittizia, poiché, a tutto concedere, il lavoratore può scegliere di prenotarsi per i turni che la piattaforma (e quindi il datore di lavoro che ne è titolare o ne ha il controllo) mette a sua disposizione in ragione del suo punteggio”.

In questi anni, prima Di Maio (ministro del Lavoro nel precedente governo) e poi il Conte due hanno pensato di cavalcare la risonanza mediatica dei riders senza avere il coraggio di affermarne la natura di lavoro subordinato (e dei diritti che ne conseguono). La legge 218 del 2 novembre 2019 si è limitata a precisare l’estensione alle piattaforme digitali dell’art.2 del d.lgs.81/2015, secondo cui “si applica” la disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai co.co.co (o alle partite IVA che di fatto sono tali) “le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente”. 

Un timido passo avanti, zeppo di contraddizioni, che non ha modificato la condizione reale dei riders in un contesto come quello che stiamo vivendo dove il loro utilizzo è aumentato, i rischi per la salute si sono moltiplicati ma le paghe sono invece ribassate.  La legge ha introdotto “livelli minimi di tutela per i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore”, e trattando del compenso, ne rimanda la determinazione ai “contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale”. Due errori con un colpo solo.

Da un lato infatti è stato introdotto il concetto pericolosissimo di “livelli minimi di tutela”, che è potenzialmente dirompente ed apre nuove strade allo smantellamento del diritto del lavoro. Dall’altra rimette nelle mani di Cgil, Cisl e Uil una materia che andrebbe prima regolata per legge, rimandando all’applicazione dei CCNL esistenti, piuttosto che alla stipula di nuovi contratti ad hoc per il settore.

Il vizio d’origine purtroppo continua a pesare.  Ci si rifiuta di vedere che i riders sono lavoratori subordinati e come tali vanno tutelati. E in più si cerca di assicurare e alimentare la rendita di posizione dei sindacati confederali, stabilendo che l’art. 2 del d.lgs. 81/2015, non si applica “alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delleparticolari esigenze produttive ed organizzative   del   relativo settore”.

In questa contraddizione si è recentemente inserito il «contratto collettivo nazionale per la disciplina delle attività di consegna di beni per conto altrui, svolta da lavoratori autonomi, c.d. rider» stipulato il 15 settembre tra AssoDelivery e UGL. Un contratto “non contratto” che ignora il dibattito di questi anni, le lotte dei riders e le sentenze, afferma la natura esclusivamente autonoma del rapporto di lavoro dei riders,  e inoltre “preclude la maturazione a favore del rider di compensi straordinari, mensilità aggiuntive, ferie, indennità di fine rapporto o altri istituti riconducibili al rapporto di lavoro subordinato al di fuori di quanto specificamente previsto dalla normativa vigente, dal presente contratto o dal contratto individuale”. Un’autentica dichiarazione di guerra del fronte padronale, con il sostegno dell’UGL, che tenta di sfruttare a proprio favore l’assenza di regole certe e democratiche in materia di rappresentanza sindacale.

La sentenza di Palermo, in questo contesto affatto positivo, è una buona notizia. Così come la rottura del fronte padronale, con il recente annuncio di JustEat di lasciare AssoDelivery e assumere i lavoratori.

Sulla condizione dei riders e sulla regolazione della materia si gioca però una partita che va ben oltre la condizione di questa categoria di lavoratori. C’è l’intento di scardinare l’impianto complessivo del sistema contrattuale ed introdurre nuove figure ibride di lavoro che sfuggano completamente al sistema delle tutele che ancora sopravvive nel nostro paese. Dietro lo sfruttamento dei rider c’è un disegno insidioso che ci riguarda tutti.

SLANG USB